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La scelta legislativa di non consentire alla donna singola di accedere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) limita l'autodeterminazione orientata alla genitorialità in maniera non manifestamente irragionevole e sproporzionata.
È quanto si legge nella sentenza numero 69/2025, con cui la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate sull'articolo 5 della legge numero 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola di accedere alla PMA.
La storia
Tutto nasce dal ricorso presentato da una donna single, la quale aveva ricevuto il diniego, in ragione del divieto previsto dalla legge n. 40 del 2004 per le persone singole, da parte di un Centro di procreazione assistita alla richiesta di accesso alla procreazione medicalmente assistita.
A fronte di tale diniego, la ricorrente proponeva ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo), e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo e di avviare la procedura medica a carico del Servizio sanitario regionale.
In via subordinata, chiedeva di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo.
Il Tribunale ordinario di Firenze sollevava (in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui prevede che possano accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi», e non anche donne singole.
Anzitutto, l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 determinerebbe, secondo il rimettente, un vulnus agli artt. 2 e 13 Cost., in quanto sacrificherebbe irragionevolmente il diritto incoercibile della persona di scegliere di costituire una famiglia anche con figli non genetici, comportando una violazione della libertà di autodeterminazione con riferimento alle scelte procreative.
Inoltre, sempre ad avviso del Tribunale di Firenze, la norma censurata lederebbe l’art. 3 Cost., poiché determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra coppie e persone singole, benché nel nostro ordinamento sia ammessa e tutelata la famiglia monogenitoriale.
In aggiunta, il divieto comporterebbe una discriminazione fondata sulle risorse economiche delle aspiranti madri, in quanto l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sarebbe consentito solo alle donne che siano in grado di sostenere i costi necessari per avvalersi di tali procedure all’estero.
Il giudice ravvisava anche un contrasto anche con l’art. 32 Cost., là dove il divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per la donna singola precluderebbe a quest’ultima «la prospettiva di divenire madre, considerando anche il fattore temporale legato alla sua fertilità (vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 161/2023)», il che andrebbe a riverberarsi negativamente sulla salute della stessa.
Infine, il citato art. 5 violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE, posto che il divieto ivi previsto «confligge[rebbe] con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e con il diritto all’integrità fisica e psichica in quanto non rispett[erebbe] la libertà di autodeterminazione e di scelta in ordine alla propria sfera privata con particolare riguardo al diritto di ciascuno alla costituzione del proprio modello di famiglia».
La decisione della Corte Costituzionale
Innanzitutto, la Corte Costituzionale al fine di decidere sulla questione di leggitimità sollevata, ricostruisce la ratio della normativa oggetto di valutazione: la legge n. 40 del 2004.
Sul punto la Corte riconosce che la suddetta normativa è stata plasmata intorno alla finalità di porre rimedio ai problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana (art. 1, comma 1).
Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita viene consentito solo se sia constatata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione e sempre che la sterilità o infertilità derivino da una causa accertata e certificata da atto medico o – qualora siano inspiegate – vengano documentate da atto medico (art. 4, comma 1).
La richiamata finalità, a parere della Corte, si riflette sui requisiti soggettivi previsti dal censurato art. 5 della legge n. 40 del 2004 per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: coppie di sesso diverso, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, rispetto alle quali sia stato effettuato l’accertamento di sterilità o infertilità patologiche, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della medesima legge, cui l’art. 5 fa rinvio.
Inoltre, sempre quest’ultima disposizione prevede che le coppie siano maggiorenni, nonché coniugate o conviventi.
Sul punto, la Corte ribadisce, come già fatto in passato, di non poter intervenire estendendo la funzione delle tecniche di PMA da mero rimedio per le sterilità e infertilità patologiche a via di accesso alla procreazione per i casi di infertilità “fisiologica”.
Difatti, la Corte ha ritenuto di competenza del legislatore un eventuale intervento in tal senso, posto che si andrebbe a mutare la stessa ratio di una disciplina coinvolgente temi eticamente sensibili.
Chiarito ciò, la Corte poi valuta se l’omessa considerazione della donna singola superi il vaglio della non manifesta irragionevolezza e sproporzione.
Ebbene, secondo la Corte, la scelta del legislatore di non avallare un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, implica l’esclusione della figura del padre è tuttora riconducibile al principio di precauzione nell’interesse dei futuri nati.
Pertanto, rispetto all’esigenza di tutelare questi ultimi, la conseguente compressione dell’autodeterminazione procreativa della donna singola non può, nell’attuale complessivo quadro normativo, ritenersi manifestamente irragionevole e sproporzionata.
In definitiva, la Corte non ritiene che il solo interesse orientato alla genitorialità della donna possa evidenziare la manifesta irragionevolezza e sproporzione di una scelta legislativa che, nel solco del principio di precauzione, si fa carico soprattutto dell’interesse dei futuri nati.
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