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E' rapina sottrarre il cellulare al partner per spiarlo

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Nelle relazioni di coppia, pietra angolare del rapporto dovrebbe essere la fiducia cieca nei confronti del proprio partner. Tuttavia la voglia di controllare il cellulare dell'altro per spiarne telefonate e messaggi, soprattutto se si sono già colti segnali di un possibile tradimento, non risparmia nessuno.
Attenzione però a questo comportamento dettato dalla crescente gelosia, perché potrebbe trasformarsi in una condotta penalmente rilevante, che integra il reato di rapina.


La vicenda, conclusasi con la sentenza della Corte di Cassazione penale n. 45557A/2021 ha come protagonista un uomo che è finito sotto processo, dopo essere stato denunciato dalla compagna per averle portato via il telefono cellulare e per averla aggredita al fine di poterne mantenere il possesso.

La Corte ha dunque confermato le precedenti sentenze, di primo e secondo grado, che condannavano l'uomo per i reati di rapina impropria, lesioni aggravate e violenza privata.
A nulla è valso il ricorso presentato dal medesimo, il cui focus consisteva nella mancata sussistenza del presupposto integrare il reato di rapina, e cioè dell' "ingiusto profitto" nel quale, a detta dell'uomo, non poteva rientrare la possibilità di visionare i numeri e le comunicazioni contenute nel cellulare della compagna.

L'ingiusto profitto

L'ingiustizia del profitto è uno degli elementi che richiede l'art. 628 c.p. al fine della sussistenza del reato in parola.
Infatti il medesimo articolo recita: Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.

La Cassazione ha più volte precisato, sin dal 2015 con la sentenza n. 11467/2015, che l'impossessarsi della cosa altrui, perseguendo esclusivamente un'utilità morale (consistente, appunto, nel visionare i messaggi) può ben sposarsi con l'ingiustizia del profitto richiesta dal reato, in quanto si tratta di una finalità antigiuridica che viola il diritto alla riservatezza e incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane.

A tal riguardo, la Corte di Appello ha correttamente enunciato il principio secondo cui "nel delitto di rapina, l'ingiusto profitto non deve necessariamente concretarsi in un'utilità materiale, potendo consistere anche in un vantaggio di natura morale o sentimentale che l'agente si riproponga di conseguire, sia pure in via mediata, dalla condotta di sottrazione ed impossessamento, con violenza o minaccia, della cosa mobile altrui" (Sentenza n. 23177 del 16/04/2019).

Per tali ragioni la Cassazione penale ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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