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Il test del DNA nelle cause di accertamento della paternità

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Si sente spesso discutere riguardo a quali siano i mezzi di prova utili per arrivare a provare che un uomo sia il padre biologico di un determinato soggetto, supposto come suo figlio,; un procedimento noto come accertamento della paternità.


E' doveroso premettere che la ricerca della paternità naturale si basa sul principio della libertà della prova, che infatti può essere data con qualunque mezzo; l'unico limite è imposto dal codice civile laddove, all'articolo 269, afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.

Ad ogni modo è pacifico che il nostro codice ammetta che la paternità naturale possa essere provata mediante elementi presuntivi, valutati in base al canone della maggior probabilità, secondo il brocardo latino dell'id quod plerumque accidit.

Pertanto, nella prassi, i giudici svolgono gli accertamenti prendendo in considerazione sia l'evidenza di una relazione al tempo del concepimento, sia il comportamento che il preteso genitore è solito adottare nei confronti dell'ipotetico figlio, sia la fama di questo loro rapporto nell'ambito delle relazioni sociali.

Oltre a ciò, viene frequentemente nominato un peculiare mezzo di prova, gergalmente noto come test del DNA; esso, tecnicamente, consiste in una consulenza tecnica, che viene disposta d'ufficio dal giudice e che si realizza mediante l'effettuazione di prelievi immuno-ematologici, eseguiti su campioni biologici del preteso genitore o dei suoi parenti.

Nello specifico si pongono a confronto, con strumenti di laboratorio, il profilo genetico del figlio con quello di entrambi i genitori; una volta individuate nel figlio le caratteristiche genetiche di provenienza materna, viene valutato se vi sia o meno corrispondenza con quella di provenienza paterna e, in caso negativo, l'indagine si conclude con l'esclusione certa della paternità.

Grazie alla certezza dell'esito, in luogo della mera probabilità offerata dagli altri mezzi istruttori, da circa una decina di anni ha iniziato a diffondersi nelle aule dei tribunali l'utilizzo sempre più massiccio del test del DNA; il che è stato recentemente confermato nella sentenza della Corte di cassazione n. 14916 del 2020, in cui i magistrati hanno sostenuto che "in materia di accertamenti relativi alla maternità e alla paternità, la consulenza tecnica ha funzione di mezzo obiettivo di prova, e costituisce lo strumento più idoneo, avente margine di sicurezza elevatissimo, per l'accertamento del rapporto di filiazione".

Questa determinazione dei giudici è arricchita da un rilevante corollario, in base al quale è possibile trarre elementi di prova dal comportamento processuale del soggetto che rifiuta di sottoporsi all'esame del DNA.

Infatti in numerose pronunce della cassazione si afferma che "il rifiuto di partecipare alla prova ematologica assume il valore di prova in senso tecnico, tale da sola a fondare la decisione del giudice ed in grado di giustificare il giudizio di superfluità di tutte le prove eventualmente dirette a dimostrare l'inesistenza del fatto provato attraverso il comportamento processuale della parte" (Cassazione 20235/2012, Cassazione 9727/2010, Cassazione 10051/2008, Cassazione 18224/2006).

Addirittura i giudici sono arrivati ad affermare che è valutabile, come elemento indiziario di convincimento, non solo il rifiuto della parte di sottoporsi alla disposta prova genetica ed ematologica (il quale è assimilabile al rifiuto di ottemperare all’ordine d’ispezione corporale di cui all’art. 118, 2c., c.p.c.), ma anche la sistematica opposizione avverso l’istanza di questo tipo di prova. (Cassazione 32308/2018).

Per approfondire leggi anche:

Il diritto del figlio di conoscere i propri genitori biologici

La madre che non riconosce il figlio biologico: i neonati abbandonati

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